Ci sono storie, narrazioni, racconti che non si apprendono dai libri, perché trascendono il puro dato evenemenziale dei pur rigorosi manuali scolastici in quanto ci parlano di vita e di esperienze vissute. Sono fatti raccontati in prima persona, da chi li ha sperimentati: soltanto chi è protagonista di certe vicende può rendere un incontro autenticamente emozionante, fortemente empatico, avvolgente e così catturare un uditorio … arrivare all’anima!
E’ quanto hanno sperimentato alcune classi del nostro Istituto martedì 24 aprile, il giorno che precede il ricordo della liberazione dell’Italia dal nazifascismo: abbiamo voluto celebrare quella che è tra le più fondative ricorrenze laiche della Repubblica richiamandoci ad altre libertà negate.
Con una semplicità disarmante ma insieme consapevole e ben strutturata nelle argomentazioni, con una voce pacata ma sicura, a tratti perentoria nel rimarcare certe affermazioni, la signora Laura Supino ha voluto condividere con noi momenti di “storia vissuta”, ci ha aperto l’album della sua famiglia e ci ha fatti entrare nel suo quotidiano, donandoci frammenti di un’esistenza segnata dal dolore e dall’incertezza.
In poco più di un’ora è riuscita a ripercorrere con estrema lucidità le linee fondamentali di una delle pagine più esecrabili della nostra storia nazionale, quando alcuni individui, molti dei quali vantavano prestigiosi curricula accademici, hanno avuto la presunzione di voler giudicare chi dovesse essere ritenuto uomo a pieno titolo e chi di “razza” inferiore.
Peccato che la loro analisi partisse già da presupposti infondati.
Le leggi razziali sono state un violento vulnus contro l’umanità, che non può e non deve essere dimenticato: esso deve restare ad perpetuam rei memoriam non solo per ricordare quello che l’uomo è stato capace di elaborare, ma soprattutto per costringere le future generazioni ad un atto di responsabilità verso il mantenimento di una memoria che rischia di illanguidirsi.
Dal racconto emerge una terribile grammatica fatta di parole quali violenza, discriminazione, ghettizzazione, deportazione, delazione, la cui sintassi è sapientemente tenuta insieme dalle sequenze temporali che dal 1938 ci portano fino alla soluzione finale. Un vocabolario che segna le pagine del trascorso “secolo breve”, il cui lemma principale, però, reca il nome di “indifferenza”, l’atteggiamento proprio di chi decise di non voler guardare, ma soprattutto di non voler pensare, scegliendo il rassicurante ruolo di ingranaggio del sistema, monade isolata di una massa anonima, grigia, depoliticizzata, veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit.
Il nostro imperativo categorico deve essere: “ se vuoi che tutto questo non riaccada, non dimenticare quello che un uomo è stato capace di compiere verso un altro uomo ! ”.
Le emergenze della contemporaneità impongono l’urgenza di una nuova etica che smuova le coscienze dallo smarrimento esistenziale verso cui la deriva tecnocratica le sta inabissando. E’ necessario restituire il primato all’umanità, destituire i tanti io-Narcisi che ci vengono imposti e recuperare l’uomo nella sua sacralità ontologica intangibile, rifondare legami relazionali veri, incentrati sul rispetto e sulla lealtà, senza aver paura di proclamare la verità, seppure a volte ci dovesse costare incomprensioni e isolamenti da parte di quella categoria di individui ottusi, privi di slanci autentici, concentrati solo sull’evanescente simulacro della propria immagine.
Grazie, Laura, per averci parlato di un male assoluto senza odio, per averci fatto avvertire la commozione della tua storia senza cadere nei facili sentimentalismi e soprattutto grazie perché ci hai ricordato l’importanza della cultura per le nuove generazioni.